13 reason why. La negazione della responsabilità.

Ho appena finito di vedere 13 reasons why, serie televisiva prodotta da Netflix che ha come tema centrale il suicidio di una ragazza sedicenne in un’America non ben precisata. La serie ha avuto un grande successo ma a me ha lasciato molte perplessità, che sono aumentate in maniera esponenziale durante le tredici puntate.

La storia è semplice: Hannah Baker decide di suicidarsi, ma prima di farlo registra 13 lati di vecchie casette, in ognuno dei quali racconta uno o più episodi che coinvolgono una persona a lei vicina che sarebbe responsabile della sua scelta di suicidarsi: 13 persone hanno contribuito a fare decidere Hannah Baker a suicidarsi, e ognuna si deve prendere la sua dose di colpa.

I personaggi principali sono due: uno è chiaramente Hannah Baker, che vediamo agire fregandosene delle conseguenze delle sue azioni, ma sempre pronta a lamentarsi di quelle altrui, e l’altro è il ragazzo innamorato di lei che non è mai riuscito a dichiararglielo veramente, macerato dai sensi di colpa e con la voglia di diventare l’eroe che la vendica.

La figura di Hannah è molto ben caratterizzata nel ruolo di vittima: non si prende mezza responsabilità della sua vita, si sente vittima anche quando non lo è, deforma la realtà a suo piacimento per “accumulare prove” della cattiveria altrui nei suoi confronti. Delega totalmente la sua felicità agli altri, non è capace di dire ciò che vuole davvero, ma pretenderebbe che gli altri lo capissero, comprendendo quando i suoi NO sono in realtà dei SI’ e quando no, e quando i suoi silenzi sono dei NO.

Anche Clay Jensen è ben caratterizzato: ragazzino semi-nerd innamorato di Hannah, con tutte le problematiche che un ragazzo timido vive a quell’età, che non si accorge di quanto piaccia alle ragazze, che via via che sente le cassette si sente sempre più colpevole e pronto alla vendetta, in nome della verità a tutti i costi, anche quando può essere la scelta peggiore. Clay è il senso di colpa fatto persona.

L’immagine che la serie trasmette è quella di un’America deresponsabilizzante, di adolescenti lasciati a se stessi incapaci di gestirsi la vita, di un bullismo dilagante usato come mezzo per esprimersi, di una morale bigotta contro la quale i ragazzi sembra vogliano lottare ma che li impregna in ogni cellula del loro essere e li rende sempre più deboli. Vengono proposti discutibili rapporti di causa-effetto presentati come verità assolute, con pochi sprazzi di incertezza.

Ci sono due protagonisti che tentano in qualche modo di ribaltare il punto di vista, il counselor scolastico e l’amico di Clay che ha ricevuto pe primo le cassette,  ma la loro voce è troppo debole per essere recepita in maniera chiara.

Si è detto che questa è una serie importante, perché finalmente si parla di suicidio fra i giovani, perché non si nascondono le cose, si affronta il bullismo, la violenza di genere, le difficoltà dei giovani… tutto vero, ma manca l’aspetto più importante.

Manca una figura che faccia riflettere sul fatto che non ci sono colpe in un suicidio, che la responsabilità della propria vita è personale, e non delegabile a qualcun altro, che delegare significa abbandonare il proprio potere personale, e diventare via via più fragili. Come succede ad Hannah.

Manca chi ci fa capire che quando Hannah dice in malo modo a Clay di andarsene e lasciarle perdere, non si può aspettare che lui gli rimanga dicendole che la ama, e che quando lei esce dalla stanza del counselor di nuovo non può pensare che il counselor la segua per farla rientrare: ognuno di noi è dotato di libero arbitrio e deve assumersi le conseguenze dei suoi gesti.

E’ come  un palloncino gonfio, che via via perde un po’ della sua aria (leggi responsabilità), alla fine non è più leggero, ma solo più floscio. Semplicemente non può più volare, ha perso il proprio senso di esistere.

Teniamoci stretta la nostra responsabilità, perché più la deleghiamo, più limitiamo la nostra libertà di muoverci e di pensare.

Pare che il suicidio sia la seconda causa di morte fra i teenager americani. Come aiutare i ragazzi in difficoltà? Sicuramente non levandogli le responsabilità sulla loro vita, ma anzi aiutandoli a capire che accusare gli altri dei propri dolori è il modo migliore per non crescere e non superare l’angoscia di vivere, che il senso di colpa ha l’unico obiettivo di paralizzare e quindi di non risolvere, che le difficoltà si affrontano, parlando con gli altri ma non delegando a loro la propria felicità. Smettendo di fargli pensare che la vita è ingiusta, e che se sono capitati dalla parte sbagliata non c’è più niente da fare. La vita è quella che è, ne’ giusta ne’ ingiusta, gli amici che ci hanno deluso li abbiamo avuti tutti, le speranze irrealizzate pure, ma è così che si cresce e si diventa adulti.

So che stanno girando la seconda serie di Tredici, mi auguro che questa volta la voce fuori dal coro della colpa si faccia sentire. Forte e chiara.

Condividi:

Lascia un commento